E’ uno tipo quattro amici al bar, di più di meno, non importa. Si trovano anche senza chiamarsi, si ritrovano e si sciolgono come nuvole di storni che cercano asilo nelle città. Cataletti non fa parte degli stanziali, quelli che adottando un muro di palazzo o un angolo di marciapiedi vi rimangono come incollati, tranne la pausa pranzo, sino a sera, aspettando a volte anche la notte, per poi malinconicamente ritirarsi nei propri luoghi. Soldatini di piombo, li vedo anche da quassù, da un secondo piano a Capotorre. Cataletti no, fa parte di quelli che al massimo spiega il giornale sportivo su un tavolo del Bar Olimpiade per mezzora soltanto. O un’ora, che è pure assai. Dopo il giornale spiega anche le ali e se ne va. Gli amici si lasciano sapendo che possono ritrovarsi la mattina dopo. E noi di mattina c’incontriamo.
Scrivo da cinquant’anni, non ho neanche la tessera di pubblicista. Allora gioco a fare il giornalismo perfetto con la solita consunta domanda: Chi è Pasquale Cataletti? Il seducente e tendenzioso modo di chiedere a qualcuno di raccontarsi. Come in tutte le sincere parole di chi non nasconde origini popolari, mi d ice che, figlio d’un fabbro (come gloriosamente si diceva e scriveva del Duce: tutti volevano, in quel tempo, essere figli di un fabbro), si trovò col diploma di macchinista navale in tasca, uscendo dall’Istituto Nautico che poco onorò, abbandonando presto il mare. Giovane inquieto degli anni settanta, d’indole brillante, con alcuni amici aprì un localino, il Rosso e Nero, a via Marconi, con le luci a mercurio per produrre effetti particolari e altri contorni, per fare musica ma, diciamolo, per stanare e sdoganare ragazze. Il fatto è classico: la ragazza dell’amico porta con sé l’amica e Pasquale Cataletti conosce Anna Borriello. Dopo quelli di danza cominciano lì i passi verso l’azienda del suocero Gennaro e cambia la sua vita, tra conchiglie e coralli che raccontano mari lontani.
Se questa non deve essere un biografia, che potrebbe interessare soltanto gli interessati, può essere una tessera del mosaico d’arte di questa città: diciamocelo, abbiamo una bella schiera di attori e registi, i nostri teatranti potrebbero vivere d’arte e offrire tutto l’anno buon teatro. Da più parti si levano voci a chiedere uno spazio comunale, che sia comunale davvero.
Parliamo di una grande magìa, per ricordare ancora Eduardo. Cataletti è la voce di dentro. Dentro tutto il teatro torrese, è voce grave, e pastosa, e avvolgente, starei per dire saggia. Quando gli chiedo dei suoi momenti creativi come riferimento, ritrova davanti a sé una tela per un disegno preparatorio,o creta da modellare, con tutta l’emozione dell’abbozzo. Mi vengono in mente un paio di canzoni d’autore, i miei preferiti: Paolo Conte con La ricostruzione del Mocambo, e l’altro mio grande amore Ivano Fossati, La costruzione di un amore. Allora Pasquale mi fa v edere altro davanti agli occhi, la sua costruzione del personaggio. Racconta, è un albero di Natale nudo, al quale appende palline giorno per giorno fino ad arrivare al puntale. Egli ama quindi la creatività delle prove, quando cerca il suono giusto, il tempo, il tono giusto. Ha ancora la materia, come dire, informe, tra le mani, da plasmare e accarezzare, per trovarne la dimensione. Trovare la carne della parola. Il suo abbozzo affiora fino a comporsi e divenire un compatto progetto di scena, una materia dapprima sbozzata con l’accetta e poi man mano vederla divenire presenza quasi fulcro in un gioco di leve d’attorno. La voce di dentro che fu una molla d’attore per caso, è divenuta l’altra vita, non più quella fragile del circoletto della sua giovinezza, con le luci psichedeliche, ma quella che viaggia nel gioco dei riflettori con una nobile presenza scenica, il suo registro è uno spartito sul quale si può andare a leggere una severità musicale, un teorema di ritmi, assonanze, dove il personaggio si attua, mi consento un verbo così, e si conclude nel corpo della rappresentazione.
Se gli chiedo come in una recita l’attore di appoggio diventi una balestra che regge le ruote del Carro, un po’ di Tespi, un po’ no, Pasquale si schernisce, scremando la sua valenza d’attore nel contesto del gruppo, ma per eludere un mio accenno alla cosiddetta padronanza scenica. Nel ricordargli del puntale del suo albero creativo, risponde soltanto con un sorriso, indefinibile, ironico, e beffardo anche, di malcelato intimo compiacimento. E’ un sorriso sbilenco, mi fa venire in mente la più famosa delle rare fotografie di Raffaele Viviani, la conoscete. Così, alzandoci dal tavolo del bar, salutandoci, fa mimica, fa teatro di strada.
Mi ha offerto il caffè. E’ sabato sera al San Orione. C’è l’inossidabile Teatro di Donna Peppa, ispirato e dedicato alla memoria della grande Luisa Conte, l’opera è “ 48 Morto che canta”, tredici repliche, grande successo, con una spettacolare coppia, Antonello Aprea e Teresa Di Rosa immensi. Con la guida della magistrale regìa di Antonello, che Luisa Conte amava come un figlio suo, Cataletti dà grande prova di sé, in un contesto al limite del grottesco. Questa sera è un ruolo comico il suo, al quale si è incollato come quella antica cozza si incollò allo scoglio della sua prima prova. Mi ha detto che la rappresentazione è soltanto una firma. Sono le prove la frenesia dell’Arte, è quella la vera Grande Bellezza, il divenire delle parole e dei gesti: ha capito Cataletti che si costruisce anche diffidando addirittura di se stessi, che poi fa bene alla salute. Così che le luci e gli applausi sono la cornice finale.
Per la recita mi affido ad antico linguaggio: Bene gli altri, bene tutti.
Alla fine Antonello Aprea, ringraziando il pubblico, torna sul discorso della mancanza di un Teatro Comunale a Torre del Greco. E’ storia antica, si sa.
Ciro Adrian Ciavolino
Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 19 marzo 2014