Cara Anna Maria,
uno scenario da metterci spesso alle spalle è quello di due aeroporti, il Marco Polo di Venezia e quello nostro di Capodichino. Prima l’uno e poi questo rinnovati in belle forme e luci, luoghi dove avvengono i nostri incontri per chiudere o aprire distacchi, brevi o meno brevi, dipende. E’ come se fossimo dei tessitori, fili in mano per ragguagliare il tempo e lo spazio tra noi, davanti a un telaio che immagino enorme, antico e di legno, rumoroso al tocco dei pedali, e intorno le voci e i sorrisi e gli abbracci. L’altra sera l’aereo da Venezia tardava, ne atterravano tanti, da Torino, Palermo, altre città , così che ho visto una serie di arrivi misti come
Maggio di questi tempi mi regala un fiore di pesco. E mi regala un tuo ritorno. Un velo copre però questo tempo, una ferita è sempre nostra compagna, una stimmata. Il quattordici maggio, giorno del tuo compleanno, tu venivi in auto per abbracciare tua madre, ti avevamo detto che all’ospedale ci esortavano a portarcela a casa, una di quelle sentenze che vogliono dire tutto in una frase sola. Tu percorrevi il tragitto Pordenone Napoli per stare qualche giorno con lei, ancora non sapevi cosa stava avvenendo, non ti avevamo detto tutto, tua madre stava morendo. Per un’ora soltanto non potesti vederla con gli occhi ancora aperti, anche se appannati ormai della imminente sorte nei suoi ultimi respiri: egualmente, già in cammino verso il rigor mortis, non avrebbe potuto vederti. Aprimmo la porta al tuo arrivo, per sentire nel corridoio la tua voce disperata e il tuo pianto, la tua voce come fu il tuo vagito nascendo proprio nella stessa data, forse nella stessa ora. Mi è sembrato un disegno fatto con una sola linea di matita, o di carboncino che io uso spesso, come sto facendo in queste ore. La mia vita fatta di conturbanti coincidenze si è proiettata anche nelle tue date, non abbiamo avuto sconti. Era il 14 maggio.
Questi fili al telaio che abbiamo davanti perchè divenissero un telo come vela per navigare nei nostri anni, ci conducono a momenti lieti o tristi, dipende, è così per tutti, ognuno raccoglie nella memoria tempi vissuti. I nostri distacchi e i nostri incontri, qui o al nord, mi riportano al tempo del tuo matrimonio, tutta la festa in me è confusa, molto confusa. Di quella è scolpita nel cuore, più di tutte. una sola scena: quando lasciasti la casa da viale Castelluccio, in auto, per andartene a Pordenone che conoscevo da tempo, l’auto che saliva quello che ci ostiniamo a chiamare ancora viale si rimpiccioliva inerpicandosi in cima, come uno scalatore. Sembrava quel punto una vetta da valicare, per tutta la vita tua futura.Tu stendevi il braccio dal finestrino fino a quando non giraste nella strada lassù. Così che io, ch’ero stato in quel corridoio di palazzi fino a perdervi di vista, entrai nel portoncino greve di alluminio anodizzato appoggiando al muro un braccio e piangendo come un bambino martoriato, mi pareva che tu andassi troppo lontano. Fu un tempo lungo sotto il portoncino, forse qualche buona persona mi dovette rincuorare, non ricordo. Sembrava che la corda sulla roccia si potesse logorare. Ma non si è logorata, non si è sfilaccitaa, ci sentiamo quasi ogni giorno e ci vediamo spesso io da te tu da me.
Quando ritorni ti senti a tuo agio. E non hai alcuna calata friulana, sei rimasta con la nostra dolce parlata, non si nota alcun accento di quelle terre come sento da persone che in pochi mesi non sembrano più nativi di questa terra calda di vesuviani umori. E saluti tanta gente mentre passeggiamo insieme e che sempre ti ricordano amorevolmente. Maggio sino a ieri prodigo di sole si è ammantato di grigiore e di pioggia. Ora i tuoi giri di amicizie, le nostre serate, il tuo aiuto in cose di casa, fino al giorno della partenza. Come sempre ti accompagniamo all’aeroporto dove si rivedono le stesse cerimonie per chi parte. E sembra di rivedere anche le stesse facce e tanti trolley che sembrano cani al guinzaglio, quando sono fermo alle barriere segnate da cinghie rosse e tu ti volti ancora cercando spazi tra la folla di partenti per salutare col braccio steso come in quel giorno di luglio, quando l’auto sembrava singhiozzasse salendo sui basoli sconnessi di quella strada che si adattò a balze dell’ultima lava di due secoli fa. Ora vivo altrove, in città , da questa casa non posso vedere il mare. E raccontando del tuo vivere a ridosso di monti sempre innevati d’inverno, alle persone che incontri sorridendo dici spesso: Se Pordenone avesse il mare….
Ciro Adrian Ciavolino
ph Pasquale D’Orsi
Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 27 maggio 2015
Potrebbe anche interessarti:
In Campania c’è il comune più piccolo d’Italia e uno dei borghi più belli del Belpaese: scopri dove |