Metti, a primasera, d’estate, tornando dalla riviera con un traballante trenino, e seduto al contrario della marcia, accanto al finestrino per non farti sbattere in faccia ciò che potrebbe apparirti d‘improvviso, una casa, un albero, una villetta sbiadita di sole e di vento. Oppure veder scorrere velocemente viaggiatori in
E intanto accorgermi di un uomo davanti a me ora seduto, salito poco prima a una stazione affogata nella campagna vesuviana delicatamente delineata, come può essere delicata una stazione di piccolo paese cresciuto nel verde. L’uomo, di abbigliamento modesto ma dignitoso, senza alcuna ricercatezza, ha tratti nel volto marcati, come mi par di notare per mestiere. Cerco di dargli un ruolo, e sulla faccia tentare di intuire, che so, una pena, un impegno, un sogno che avrebbe in cuore. Sugli sconosciuti fantastico del loro lavoro, addirittura. Non mi sento poi unico in queste strane indagini. L’uomo dai tratti forti sarà solo, con famiglia, da dove viene, dove va. Chi sarà mai. Così che all’incrociarsi degli sguardi nel volgere la testa, mi soffermo sui suoi occhi, che sembrano curiosi di me. E così è, sentivo, come chiunque può sentire, che mi stesse osservando da quando era salito, sedendosi davanti a me senza che me ne potessi avvedere, trovandomi viaggiatore come disperso in un deserto, anche prigioniero in pensieri miei. Poi, un po’ timido, esitante, toccandosi la cravatta, riaprendo le gambe che aveva subitamente accavallato per darsi un tono di disinvoltura,e sciogliendole, non sapendo come divincolarsi dall’imbarazzo, nei cui occhi scuri ma imperlati da un alone azzurrogrigio, indovino un barlume di emozione: Ma voi siete…Sì, voi siete, interrogando senza forzatura, insomma senza il punto interrogativo. Ah, ma io sono un vostro lettore, conosco il vostro lavoro d’artista anche, ma soprattutto la vostra scrittura, non manca occasione di cercarvi sui nostri giornali, la vostra penna leggera, permettete, dipinge parole, sono pittura scritta.
Il trenino sussulta sui binari, facendoci muovere in modo involontario la testa, che dondola come una volta dondolavano nelle navette del tram numero cinquantacinque, che io bambino vedevo sferragliare alle curve di ammiezatorre o ncoppavvuardia o perdendosi nella strada-campanile, diciamo ancora così di quei luoghi. Paolo Conte, che vive o viveva, ad Asti, canta ancora con la bellezza delle sue note e con la voce da fumatore: Con quella faccia un po’ così, con l’espressione un po’ così, che abbiamo noi prima di andare a Genova, ecco, come nel tram numero cinquantacinque le rivedevo, ora, le tipiche facce da treno, nei lampi delle prime luci di una sera perduta con l’anima ferita, e sembra che tutti compiano un rito devozionale, come se volessero improvvisamente alzarsi per cantare tutti insieme uno spiritual o gospel, se non proprio un definitivo epicedio, per me.
Alla domanda dello sconosciuto devo annuire, non posso deluderlo, mi schernisco, ovviamente con leggero sorriso di malcelato compiacimento. Io sono, e dice chi è. Mi sforzo di rammentare, anche se racconta particolari, ma non mi viene, mi convinco che non mi importa. Devo confessargli che non posso ricordare tutti quelli che mi conoscono o riconoscono, sono sempre così svagato. Professore, a volte tento di scrivere, confesso, ma pensando a voi mi scoraggio, vorrei esprimermi come voi fate, uscendo e poi rientrando nell’argomento, come se camminando vi infilaste in vicoletti improvvisi aperti sulla strada che state percorrendo con il vostro racconto, che riprendete come so che sapete riprendere, come facevano gli antichi tessitori, che si muovevano davanti ai telai come gli organisti nelle chiese abili di mani e di piedi sui pedali.
Nella Chiesa del Carmine, che frequentavo fanciullo ai tempi della preparazione alla Prima Comunione, con la Signorina Avenia, a volte salivo su quella che era la cantoria antica, c’era un uomo che suonava su un organo vecchio di secoli e mi trovavo spesso lassù, più vicino ad antichi affreschi non di eccellente mano, per manovrare leve di legno lucide d’antico uso per dare aria al mantice e alle canne. Non mi dareste una mano, dice, tengo una storia in cuore che vorrei raccontare, ma con il condimento che voi sapreste dare.
Gentile signore, rispondo con accorta voce, io non vi chiedo chi siete, almeno per ora, e non è la prima volta che metto mano a scritture altrui, diciamo per mestiere anche, e per persone che non ti aspetti, che affannano davanti ai loro fogli. Dovreste darmi appunti, notizie, dirmi se è una vera storia, i luoghi, i personaggi, dovreste raccontarmi tutto. Con verità . Voi non potete firmare e credo neanche io se dalla descrizione si possano individuare identità . Dovremmo modificare nomi e le varie situazioni, diventa un lavoro di tessitura. Come voi stesso avete detto.
Professore, io racconterò anche giorno per giorno, se vorrete. Ci terrei a lasciare una memoria, come una lapide, incancellabile.
Ripondo : A me piacerebbe scrivere come fosse una lettera, mi è più facile, come tante volte ho fatto e delle quali voi credo abbiate memoria, Le lettere impossibili o Lettere a una Signora. Insomma dovrei calarmi nella geometria dell’io narrante, dove l’incipit, come anche questo sarebbe o potrebbe pretendere di essere, possa condurci nella cosiddetta medias res della narrazione. Insomma io e voi diventeremmo figure a incastri multipli sovrapponendoci o sdoppiandoci. E’ una delle tecniche più pregnanti.Va bene, ne parleremo, vi do il mio numero di telefono, chiamatemi tra un po’ di giorni.
Grazie, grazie assai, professore.
Il trenino si ferma.Scendiamo insieme ma ci separiamo subito, scartando passi e persone.
E’ quasi notte.
(continua, chissà dove, chissà quando)
Ciro Adrian Ciavolino
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ph Pasquale D’Orsi
Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 21 ottobre 2015