Al cinema era così. Nelle sale si fumava tanto.
Il regista sagace stendeva un canovaccio, una specie di telaio nel quale andare a tessere le idee che gli venivano dalla cultura sua, dal sogno della sua notte, dal suo paese natìo. Sorvolava l’origine del soggetto,
Tutti fumavano.
Un intelligente docente di Storia dell’Arte, il professore Mormone, un intellettuale, figura di elegante dialettica, era anche fine scrittore. Una volta, non so proprio perchè scegliesse me, mi invitò a correggere sue bozze per un libro, fu la svolta per dire, a me stesso, troverò anch’io un giorno un correttore di bozze? Chi scrive non s’accorge degli errori perché legge a memoria. Mi figuravo un mio destino, che nei miei miraggi letterari, di qualità o meno non sta a me dirlo, certi sogni si aggiravano dalle mie parti, di giorno come di notte. Durante le sue affascinanti lezioni, in un’aula che sembrava una chiesa, un convento dev’essere stato quell’edificio, accostando spesso il cinema all’arte figurativa, il professore dava molta importanza al montaggio, che è un’arte a parte. Anch’io faccio montaggi, correndo nella memoria, mi fermo a stazioni di posta, come un regista talvolta fa inserendo fotogrammi che riguardano più il suo panorama esistenziale che l’impegno narrativo su cui sta lavorando. Adesso vado al Vomero, raccolgo nei miei pensieri qualche maestro napoletano, mi adagio nelle pagine di Via Gemito, un bellissimo romanzo autobiografico di Domenico Starnone, dove scrive di suo padre Federico, pittore eclettico, del loro rapporto amore-odio, e mi trasformo in un piccolo deus ex machina: anziché ergermi dalla scena, davanti ad essa mi pongo, da spettatore, privilegiato.
Raccontava il buon Mormone – che avrebbe raggiunto, dopo l’Istituto d’Arte di Napoli una cattedra alla Federico II° – che molti cicli pittorici sono storie narrate come i fumetti di oggi volti a un pubblico vario, e anche colto, perché no. Ne cito uno per tanti: prendiamo Giotto ad Assisi o per quel gioiello che è la Cappella Scrovegni a Padova, dove subii quella che viene chiamata Sindrome di Stendhal, cioè uno sdilinquimento dal quale si viene colti davanti al capolavoro, una vertigine. E che quindi erano, quei cicli, raccontati al popolo mediante la pittura, erano film, insomma racconti per immagini. Un impegno formale che resiste con i fumetti d’autore. E fu da quell’antico vaticinio del maestro Mormone, per quel fascio di fogli dattiloscritti che cominciai a infoltire mucchi di cartuscelle mie, dove ho spesso appuntato e forse anche maciullato mie storie, paesaggi, persone, atmosfere, con notazioni di facile presa popolare, pozzi nei quali mediocremente si può precipitare.
Eccomi ora a continuare quanto ho scritto due settimane fa per un casuale incontro in treno con uno strano individuo un po’ visionario e un po’ contenitore di una vicenda sua (dis)umana, chiamandomi per una esperienza di vita a raccontare in vece sua, narrandomi di una persona che ha fatto della menzogna il teorema della sua vita, un castello di carte. Chiedeva così costui, e accoratamente, di mettere il suo racconto in scena, di imbastire, come un regista davanti a un brogliaccio di commedia dell’arte, i suoi appunti come per un film, insomma dei provini. Accettai. Narrava, in luoghi diversi, con scenari vari, come se fossero stati già predisposti da un abile “metteur en scène”. Gli facevo notare che quanto mi avrebbe raccontato, accettando di scrivere al posto suo. mancandogli il nerbo, se posso dire, l’esperienza, e quei lampi di tragressione, che sarei finito nell’eccentricità di stilemi da gotico fiorito, oppure volando in barocchismi ironicamente sorridenti e anche irridenti, nei quali sarei fatalmente caduto, venendo in possesso della sua storia, e in certi miei conti di vita, per il sovrapporsi di due personalità diverse ma arrotolate in una inevitabile osmosi che di conseguenza ne sarebbe risultata.
E così, come avviene per un regista o uno scrittore vero, tornando l’inverno, si finisce per indossare soprabiti del’anno passato o di secoli fa, divenendo ectoplasma di se stessi, andando a scovare gli scheletri nell’armadio di una persona della quale, come mi ha fatto intendere, vorrebbe che io interpretassi stili di vita. Per sigillarne memoria su pagine più strette che nel cervello, nella carta, e quindi inalienabili, come quei segni sulle braccia per l’inserto, come dicevamo d’un vaccino inoculato da una penna che graffiava la nostra pelle. Un viaggio di due anime trafitte da uno spiedo su una feroce brace, come quelle all’aperto armate, dove anche un vento leggero può mandare faville intorno agli stessi ambienti dove l’autore-amanuense vive. Arsure. Un viaggio non come quello col trenino dove ci siamo incontrati. Per rispettare le mie coincidenze di vita, la richiesta somigliava come viaggio di memoria in un intreccio di treni scuri a Pietrarsa: negli stessi giorni quando vi ero andato per assistere a uno spettacolo di alunni del Liceo Classico di Portici, che interpretavano scene della Rivoluzione Napoletana del 1799, e immaginavo quante teste siano cadute davanti a un pubblico vario, e il loro raccapriccio vedendole rotolare in Piazza Mercato. Raccogliamo allora frammenti, meteoriti,viscere marce, pozioni avvelenate, fuochi fatui. torce esaurite, storie finite nei nostri ripostigli. Dipende dalle fughe sensoriali dell’uomo narratore, dipende da cosa potrà dirmi ancora delle sue vicende, da quale angolo, da quale profilo. Da quale canto narrerà.
(2 – continua, chissà dove, chissà quando, forse non qui)
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Ciro Adrian Ciavolino
ph Pasquale D’Orsi
Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 11 novembre 2015