Avvocati del diavolo
Ha destato grande scalpore, nelle scorse settimane, la sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Roma in merito alla vicenda di Stefano Cucchi, il giovane deceduto dopo essere stato fermato in quanto trovato in possesso di sostanze stupefacenti. Da parte di chi scrive, in effetti, detta sentenza desta non poche perplessità, derivanti soprattutto dalla visione della documentazione fotografica, ampiamente diffusa dai media, che ritrae il ragazzo recante evidenti segni di percosse subite. Occorre prendere atto, però, che i giudici di una corte italiana, alla luce dell’istruttoria dibattimentale, hanno ritenuto non dimostrata la responsabilità degli agenti di polizia penitenziaria, imputati nel processo, rispetto alla morte del Cucchi: sebbene sia indubitabile che il ragazzo sia stato vittima di un pestaggio, non sarebbero stati gli agenti, secondo i giudici, a picchiare il giovane. Malgrado, quindi, la decisione della Corte d’Assise alimenti, come accennato, delle perplessità, non ce la sentiamo di unirci al coro di coloro che, dopo la sentenza, hanno immediatamente gridato allo scandalo, in quanto, riteniamo, per criticare in maniera così dura e netta un provvedimento giudiziario, occorre avere una profonda conoscenza degli atti processuali, che noi non abbiamo e che, in ogni caso, tra coloro che hanno manifestato la loro indignazione, di sicuro ben pochi hanno. Ciò, ovviamente, non significa ritenere che i giudici (chiamati a svolgere un compito di estrema delicatezza) non possano essersi, nel caso di specie, resi protagonisti di errate valutazioni nel considerare il materiale probatorio del processo; un’eventualità del genere è, ovviamente, possibile, legittimando, allora, l’impugnazione della sentenza della Corte d’Assise, che potrebbe essere riformata in sede di appello.
Alessandro e Giovanni Gentile
Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 19 giugno 2013