Dicitencelle vuje
ca nun mm’’a scordo maje.
E’ na passione
cchiù forte ‘e na catena,
ca mme turmenta ll’anema
e nun me fa campa’.
Fusco – Falvo: Dicitencelle vuje – 1930

L’uomo che passeggia tra Piazza Santa Croce e Ncoppauardia porta sul petto, a matinée aperto, una catena d’oro che parte dal gancetto chiuso in un occhiello del gilet e si infila con un orologio a cipolla in un taschino. Il signore, muovendosi con passo lento, mette fuori il suo trofeo e guarda spesso che ore sono, gli piace Catene-phD_Orsi

verificarne l’esattezza al rintocco dell’orologio del campanile. Proprio questo lo aiuta nella funzione di un gesto sacrale, con largo movimento del braccio, come in un ballo a palazzo.

La parola catena rimanda a catenaccio, è detta così una frase sotto il titolo di un articolo di giornale. L’occhiello è sopra il titolo, un preambolo. Non ho mai scritto articoli se non raramente e per necessità. Le mie scritture sono elzeviri, parola che viene da un tipo di carattere tipografico usato ad Amsterdam dai fratelli Elzevier. Ho imparato sui tasti della mia mitica Olivetti Lettera 22. Nella redazione del periodico La Torre iniziava la mia avventura letteraria, e per vent’anni ho navigato sui miei spazi in libertà. Nel 1987 abbandonai.
Il giornale La Torre, ai tempi miei con quello, si stampava nella tipografia di Don Ettore Palomba, Fosso San Michele, Via Diego Colamarino. Mi piaceva andarci per seguire il giornale fino alla stampa, il rumore delle macchine, della linotype, per me era musica accarezzata dall’odore del piombo fuso, dell’inchiostro, e imparai tanti cose di quel bel mestiere. Correggevo bozze e sapevo perciò cos’era un occhiello e un catenaccio. Io ho usato spesso un esergo, piccola nota o frase di apertura, e via con la penna.



Le catene non sono soltanto d’oro, sono anche di pesante ferro. Ora Pasquale D’Orsi mi manda una immagine che per un passante potrebbe essere insignificante, ma al terzo occhio dell’artista fotografo non sfugge la poesia delle cose semplici come la catena a un gancio sul muro, lì ancorata forse per proteggere una moto che vi sosta. La catena, si sa, è presa a simbolo di impedimenti materiali e morali dell’uomo ostaggio di politica, di etnia, di malessere, di sentimenti.
La schiavitù redenta ha catene spezzate: nel 1936 il Carro Trionfale dell’Immacolata “Regina delle Vittorie”, opera di Enrico Taverna allestita dagli apparatori Sorrentino, uscì sulla piazza, era pieno di aquile imperiali e orpelli inneggianti al regime fascista, davanti alla Vergine Maria il negretto di cartapesta sollevava le braccia con catene spezzate ai polsi, l’Italia andava a liberare l’Africa Orientale non so da che cosa, si cercava il cosiddetto posto al sole nel Mare Mediterraneo che era diventato Mare Nostrum. In casa si è conservato per anni un casco coloniale, mio fratello Francesco era stato su quei lidi. Qualche volta l’ho provato ma mi cadeva fino al naso. Tutto questo accadeva mentre Carlo Levi, per le sue idee, ed anche per il nome che portava, veniva confinato in Lucania, tra le capre nere e lucide come gli africani che s’intendeva liberare. Levi era un intellettuale piemontese, in Lucania ha dipinto tele di grande poesia d’arte e per quella storia sua ha poi dato ai nostri occhi uno dei più bei libri di tutto il Novecento, un capolavoro della nostra letteratura, compagno e viatico dei sogni letterari delle nostre sere quando prima della mezzanotte già usciva dalla tv la signorina che diceva Signore e Signori buonanotte, seguita da una musica sublime, “Armonie del pianeta Saturno”, del compositore Roberto Lupi, uno dei grandi del secolo scorso. Cristo si è fermato a Eboli, il libro. Nella prima pagina lo scrittore non cita catena e catenaccio, come ai suoi tempi si usava per manette, scrive raccontando dell’arrivo al domicilio coatto di Grassano “con le mani impedite”, lo ricordo ancora. Divenne il mio breviario, oltre che dai classici anche da quello ho imparato a tenere un poco la penna in mano.

Veniva dalle nostre parti un uomo, anziano per noi giovani, se ben rammento da San Giovanni a Teduccio, che richiamava intorno a sé sfaccendati nei luoghi del signore con la catena d’oro, il suo posto preferito. Era sempre ubriaco, si poneva a gambe divaricate dicendo: Ecco l’opera. Ingoiava una spada. E poi una lunga catena che andava a depositarsi nello stomaco, e poi la estraeva, lentamente. Gil astanti lo prendevano in giro, dicendogli che un altro giocoliere di strada, che chiamavano Paparazze’, più o meno così, fosse meglio di lui.
L’uomo, che si chiamava Tortora, dagli occhi rossi per abbondanti libagioni giornaliere, si arrabbiava e reagiva, dicendo di sé: ‘O vecchio s’ingoia una nave con tutti i passeggeri.A volte diceva d’essere capace di ingoiare anche il porto di Napoli.
In questo luogo che ho citato, che insiste nel mio immaginario, c’erano quattro sale cinematografiche: c’era in via Teatro il bellissimo Cinema Teatro Garibaldi, con due ordini di palchetti e un loggione, l’insipienza dei nostri amministratori ha voluto abbatterlo anticipando la storia di Nuovo Cinema Paradiso. In piazza il Cinema Savoia, una piccola sala, in via Gradoni e Cancelli il Cinema Vittoria, detto il pidocchietto e il Cinema Iris che aveva una galleria e d’estate s’apriva su binari un tetto a padiglione di ferro, che lasciava vedere le stelle quando si vedevano le stelle. E in questo cinema si ebbe un record nazionale di incassi per il film Catene, con Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari. Erano catene d’amore, quelle che ci rendono schiavi senza liberazione da parte della Patria.
A Mamma d’a Catena si son rivolti i poeti napoletani per le loro canzoni, qualcuno è arrivato fino a Ciente Catene. A Santa Lucia un’antica chiesa , Santa Maria della Catena, custodisce le spoglie di Josepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, uno dei più grandi pittori del nostro glorioso Seicento, e quelle di Francesco Caracciolo, impiccato per la rivoluzione del 1799, anche da me illustrato nel ciclo pittorico su Lady Hamilton, una drammatica storia sulla quale potrei tornare: di Napoli vivo storia e luoghi.

Anni silenziosi di notte, quando sulle nostre scogliere andavamo a pesca e la luna baluginava sulle lievi increspature del mare che già all’imbrunire cominciava ad acquietarsi. Spesso stavamo al molo di ponente, con amici, e alcuni ebbero fretta di lasciarci. Pare di sentire ancora le loro voci se di sera vado laggiù, di Pasquale D’Elia, elegante in tutto, o di Mario Tucci che cantava canzoni napoletane con voce dolcissima. Portosalvo steso davanti a noi ancora con poche luci, caricava la sua canzone di pietre e colori pastello, mentre un vento leggero cullava le barche, e il cigolio delle catene da ormeggio intonava un canto, come di sirene, e a quel canto catturavo stelle nelle pieghe sottili dell’onde.
A quelle stelle penso ancora, andando al porto. E a una sottilissima catena d’oro che mi ormeggia a una sponda di bellezza.
Ciro Adrian Ciavolino

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 9 luglio 2014