Il poeta notò e scrisse: C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, un endecasillabo folgorante come un’aurora. / anzi d’antico, soggiunse. E proprio verso oriente, nel rosa che riesce a sopraffare il blu cinerino che si scioglie, brilla un astro, da giorni: sarà un pianeta, e non so dargli nome. Uno dei miei limiti, insieme a quello
Si moriva fanciulli. Io sono un sopravvissuto.
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Aquiloni. Rimanevo ad aspettare il vento del primo pomeriggio scorgendo dall’ à stico altre figurine intente a dar filo alle comete. Comete, le chiamavamo così, poche lire alle due vecchiette vestite di nero in una stanza in curva alle mitiche grariatelle della ciucciara. Dove albergavano umori antichi tra le campane di vetro che proteggevano santi impolverati e tarlati. Aspettavamo il vento che tardi, molto più tardi sapemmo che era detto maestrale.
Nel tempo di quelle comete di carta velina, fragile veste di un piccolo schema di sostegno fatto di canne ad arte tagliate, la nostra innocenza trasmigrava negli impulsi della pubertà e gli occhi cercavano spiragli di bellezza nelle carni chiare delle giovinette, si vagava guardando sottecchi dalla nostra timidezza chi passava facendo rintronare sui basoli di lava le cadenze degli zoccoli, il poeta napoletano non si fece mancare quel suono di zucculillo zucculillo sulla scalinatella longa longa longa. Scalinatella. Un oltraggio ad un paese che si era adattato sulla lava vesuviana modellando scale, Gradoni e Canali, Gradoni e Cancelli, troppo ripide alcune per tentare di distruggerle, e meno male. Le scale di pietra un patrimonio da proteggere e non disperdere, distrutte soltanto perchè potessero passare automobili. Altre, circondate da lava, erano state ricavate sulla roccia ad arte scolpita perchè questo popolo paziente potesse viaggiare, e salire e scendere sulle scale dei Cappuccini ed altre, e su quelle volare carpendo odore di mare, e di legno calafatato, e sbatacchiare di vele mentre nel cielo comete, leggere di buon vento, si affratellavano amorosamente o litigavano per il predominio del territorio, erano lontane a combattere in cielo, e accapigliarsi alla maniera degli stessi bisticci nei vicoli, invettive spalmate sui muri che si stendevano al sole pomeridiano.
Sono un indigeno dei vicoli, li ho percorsi tutti. Sono nato inmezzassangaetano in una casa dove l’immagine del santo venuto da Thiene è lì, in una edicola abbandonata da cuori e occhi. Da lì andammo in Vico del Pozzo che ci inorgogliva soltanto perchè era detto Primo, mentre altri si svolgevano cadendo verso il mare, secondo o terzo vico. E sull’à stico del palazzo numero quattro aspettavamo che il vento di maestrale si districasse dalle pareti dei muri intorno e da bianche lenzuola a imitazione di vele, e per mandare verso il petto gonfio del Vesuvio le nostre creaturine di carta velina. E sul far della sera sistemarle sotto il letto perchè potessro riposare, acquietarsi, dormire.
Inmezzoassangaetano si contano dieci vicoli, alcuni abbordabili per salire a via Teatro: Teatro Garibaldi anche quello una gloria nostra a imitazione combinata tra liberty e stilemi pompeiani, proprietà comunale, distrutto dalla inquietudine modernista, nella abbuffata di sabaudia frenesia, Vittorio Emanuele, Umberto, Cavour, Diaz, altri. Targhe nere incise con sistema meccanico dal computer adornano, zeppe di errori – pensate, dedicato un vicolo a Carloforte, città di mare approdo di coralline viene trascritta come Carlo Forte, nome di persona – nere targhe luttuose che hanno sostituito quelle di marmo d’antica e nobile e dignitosa vista. A parte che sarebbe stato utile sottoscrivere date e professione e stato sociale dei vari Colamarino Noto o Avezzana, quanti Carneadi, oltre che antiche forme verbali per richiamare come ancora chiamiamo, luoghi come ammiezatorre o ncoppauardia, per dirne soltanto alcuni.
Pensate quante di queste strade e vicoli vengono indicate sotto ncoppa ammiezo, a reta rinto eccetera: una volta pubblicai un pezzo intero di mio spazio su un giornale a tutte queste denominazioni precedute da avverbi. Allora meglio allontanarsi da queste mediocrità culturali cercando spazi aerei dove ancora si possa salire, e sentire odore del vento e di catrame che chiude fessure di terrazze a carosa. E lì mandare al cielo comete di carta colorata, come sogni, e come intitolò un libro suo il docile Abbagnano che mi ospitava su La tofa, periodico da lui inventato, libro nel quale inserì una mia lirica sulla struggente armonia delle scalinatelle della ciucciara.
Torno talvolta in soliti giri per accarezzare pietre e vecchi portoni, cortili di improbabili e audaci soluzioni di architettura cosiddetta spontanea. E lì parlare con chiunque preferendo gli umili. Spesso mi sento uno straniero in patria, passandovi trasognato,come antico viaggiatore, e ricordando momenti di vita, prima che io finisca col bollire definitivamente in una caldaia di mille futilità senza rimedio. E poter scrutare il cielo, anche se non si stampa più un lucido mosaico di comete colorate.
Ciro Adrian Ciavolino
Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 23 settembre 2015