Il vino la più sordida stamberga
sa rivestire di un miracoloso
lusso e crea favolosi porticati
dentro l’oro del suo vapore rosso
come un tramonto in cielo annuvolato.

Charles Baudelaire: “I fiori del male”, XLIX – Il Veleno
Così che quel veleno-elisir rosso, una sfaccettatura di rubino che si accerchia in un bicchiere, a tavola deve trovare posto avanti a me, un rituale. Un sacramentale ufficio di versamenti e alzate di vetro-calice, più volte, ma brevi libagioni. Il vino è sangue di un miracolo quotidiano – non se ne adonti San Gennaro – questo è quel rosso incatenato da un cono tronco di cristallo raggiunto da una mano che conosce gli spazi di un altare domestico.
Non ho ampolle.

Uva-Vitigno_phDOrsi

La domenica sulla tavola ovale, in cucina, c’era spazio per vino in una brocca di vetro dove nella bella stagione pezzi di pesche gialle avrebbero dato altro profumo alla vermiglia bevanda, e altro colore. Stavamo seduti tra una fontana con un rubinetto d’ottone e vaschetta di ghisa, e un focolare rivestito di mattonelle quadre non simili tra loro, ché a quelle originali erano state aggiunte per sostituirne alcune che col tempo avevano raggiunto il pavimento rompendosi, un suicidio di terracotta e smalti. Al vino mio padre era devoto specie di sera per favorirsi il sonno, era forse malinconia perenne, una natura ipocondriaca lo accompagnava verso la vecchiaia. A tavola, se gli prendeva gola e cuore, la forza terragna del vino gli dava alla fine del pranzo la forza di stendere la tremolante voce verso di noi, sussurrando certe canzoni di facile presa sentimentale, canzoni tipo carcere e solitudini di uomini nella notte che ubriachi tornavano da infime bettole con nessuna insegna che alludesse a luogo di buona tavola. C’era abitudine di portarsi involti, se non potevano ordinare qualche rara pietanza, un cartoccio con pane e companatico era tutto il loro desinare. Ma si stava lì per il vino, nel ristagno dell’odore di botti-budda compagne di un Eden di uomini sperduti nella piccola città.
Li aspettavano sulla strada basoli sconnessi e anche la luna se era tempo di luna, li aspettava il vento che faceva scuotere lampade esauste appese a fili tra muri e muri, e uscendo nell’aria della sera si muovevano sulle loro stesse ombre bestemmiando o accendendo sigarette popolari, avviandosi verso le loro case per agguantare le mogli e ingravidarle ancora una volta.



Forse sono nato per questo, dopo undici parti di una povera donna che ancora una volta avrebbe adunato accanto al letto amiche e mammana, allontanando i miei pochi fratelli e sorelle sopravvissuti a una mortalità infantile accettata allora per dovuta rassegnazione. Forse sono nato da una gonfia ubriacatura di Solopaca vero senza artifici.
Forse era aprile, se sono nato alla fine di dicembre. Forse era proprio aprile e dal mare giungeva l’eco delle voci di quelli che sulle coralline si preparavano alla partenza e sarebbero partiti all’alba al suono delle campanelle di Portosalvo lasciando sulle scogliere donne che asciugavano lacrime di mamme o di spose, o di giovanili amori. Aprile con l’aria dolce di giardini che sempre v’erano intorno alle case nostre. Forse c’era la luna o non c’era, forse si sentiva lontana la voce di altri ubriachi che tornavano alle loro modeste case, qualche cane latrava al loro passaggio, qualcuno cantava a fronn ‘e limone, canzoni di passione o per dispetto di amori perduti. Da qualche balcone trapelavano sospiri amorosi o furiosi litigi, mentre una radiogrammofono-bar, come erano chiamati quei monumenti di legno impiallacciato e resi lucenti da frenesie di specchietti che raddoppiavano le bottiglie di liquore, diffondevano i duetti dispettosi di Emilia Veldes e Carlo Buti o graffianti macchiette a due voci nella nobile lingua napoletana.

Sono nato alla fine di dicembre, dicevo, dopo un Natale di tanti anni fa, e tre giorni dopo, penso, mia madre di forte tempra era già in piedi nella casa inmezzoassangaetano, e mi dava latte. Mi avrebbe poi raccontato che a due anni ero ancora appeso alla zizza, forse quel latte mi ha protetto e mi protegge ancora. Avrei proseguito con latte di capra. Il capraio mungeva mammelle scure fuori il portone di vico del Pozzo numero quattro quando adolescente ci trasferimmo lì, una poesia il nome vico del Pozzo e una luggetella sul giardino di donna Sofia. Il figlio di Andrea Loffredo, Amedeo, una bella famiglia sullo stesso pianerottolo di allora, è venuto a trovarmi. Così che siamo andati in quel palazzo dove ho trascorso adolescenza e prima giovinezza, desideravo vedere la mia vecchia casa, ho chiesto alla signora che ora vi abita di poterla vedere. Sono stati chiamati gli uomini di quella famiglia per poter entrare, in un’aria piena di domande e di sospetti ho dovuto quasi raccontare la mia vita, e da dove venivo e spiegare per quel che desideravo di vedere, ma non capivano la mia emozione. Entrato, tutto era cambiato, spazi e muri diversi che una volta non c’erano e la luggetella di pietra verso il Vesuvio inglobata in quella che era una unica stanza.
Ne son rimasto come tradito. Nulla riusciva a ricordare me stesso.
Ma questo meriterebbe un’altra storia.
Ciro Adrian Ciavolino
ph Pasquale D’Orsi

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 11 maggio 2016