13interrogando il cielo, non ti risponde se è ancora buio, come quando appare agli insonni prima che l’alba accenni a un passo avanti. Fino a quando non si sbriciolerà l’ultima stella, quando la mia gattina Mimì comincerà a grattare sul lato del materasso dove viene a trovarmi, si sveglia affamata. Vuol dire che l’alba Rosa-phDOrsi

c’è. Naturalmente vuole il pezzo prelibato appena dopo i croccantini, un cucchiaino di patè di carne condito di pollo. Vago allora di notte nel perenne bisticcio di alloggio misto di casa-studio senza frontiere, non si sa dove comincia l’una o l’altro, ogni cosa è prolungamento di altre cose, un domino, è una convivenza di materiali e respiri che si compongono e si perdono nelle prime luci che appaiono ad est, tra Vesuvio e Faito.
Cerco prese di contatto, sfoglio memorie non più irrorate, sono piante secche appese al tempo della processione di tutti i santi. Eccoci ai balconi afferrati, e ceste colme di fiori per terra o tra le braccia, distribuendo voli come di farfalle colorate sulle statue che passano di sotto. La manciata di petali era proporzionata alla notorietà del santo, inquetava la posa dolente di Santa Colomba, o la faccia bronzea di San Gennaro, le facce e le membra dei santi protettori di pescatori o contadini. Nell’andare di queste figure sante noi fanciulli aspettavamo il San Michele nella magia del suo costume da guerriero, con la spada sguainata e il serpente sotto un piede, o la serena Giovanna d’Arco che chissà come e perchè era dolce e felice anche se andava al rogo. I martiri non pativano.
Era costume nostro ed è rimasto tale: sentivo al balcone mia madre che osservava come fosse il colore il tono lo sguardo dell’Immacolata al passaggio. La vedo più rosea, oppure. la vedo più bianca, presagio di un tempo dettato dall’anima o dai propri desideri, i colori dell’Immacolata riflettevano la luce dell’ora, la serenità o meno del cielo. Scendeva la processione in mezzo a San Gaetano: fermata d’obbligo all’angolo del vicolo della Croce, così detto per una croce di legno piantata su una collinetta di grossi lapilli montati su basamento, fermata per Santa Colomba, San Gennaro e ’a Maronna, come sempre abbiamo appellato l’Immacolata Concezione. Il momento era solenne: si aspettava una benedizione con l’Ostensorio dell’Ostia Consacrata. Da quel punto si vedeva il Vesuvio, la cerimonia era per propiziare clemenza dalle eruzioni. Si ritornava alle case in un profumato viaggio di petali delle nostre campagne, le strade prati. aiuole.

Maggio è il mese delle rose, per universale modo nella misura dettata dalla natura, arriva la festa della mamma. Sempre cadendo nel pozzo della passata età, scansando il fulgore bianco della biancheria al sole che ricordava antiche vele di paranze inamidate di salsedine, petali in cielo ve n’erano, sì, ma di carta velina, erano le comete, come da noi si diceva. Aquiloni, dicevano altrove, o cervi volanti. Ché vagamente alludevano alla stella natalizia per l’andar della cometa sbilenca nel cielo. Un florilegio di colori che s’incrociavano dai quartieri marini fino in città, e quelle che da laggiù, pensate, Via Fontana, Corso Garibaldi, Via xx settembre, Corso Cavour come potessero facilmente prender quota, e passarci sulle teste ambiziose e supponenti, noi chiusi nei gangli dei vicoli per afferrare brandelli del loro compatto vento di maestrale che giungeva dal mare.
Le nostre comete erano la parentela povera, seppure cittadina, intimidita dal loro andare veloce a stamparsi sulla faccia del Vesuvio. Ne veniva talvolta una guerra, facemmo da contraerea al passaggio di quelle fortezze volanti. Talvolta partivano, infatti, da quelle sponde, comete grandi anche due metri o forse più. Erano i cosiddetti cometoni, volavano alti sorretti da spago di spessore rispetto alle nostre matassine di fragile cotone, tricolore per patriottico segnale. La nostra contraerea contemplava una pietra legata a un filo che, lanciata doveva agganciare quello delle comete avversarie e tirarle giù, abbatterle verso le nostre terrazze e farle prigioniere, magari riusarle se cadevano indenni tra le nostre braccia.
Nulla si poteva contro i cometoni, massicci, realizzati da mani esperte con crociera di robusta canna rivestita di carta oleata, per poter reggere il vento. Alcuni di questi cometoni erano noti, di questo, di quello, si sapeva di chi era la proprietà, da dove venivano, alcuni di questi cometari si facevano un nome nella storia di un paesaggio di carta volante che non c’è più. Cadono lontano memorie di sfilate di santi, di comete, di fiori. Un mondo di colori semplici, carnali, nostri e soltanto nostri. Non ci resta che un cielo vuoto, sperando che sia azzurro.

E’ questo un giorno di rose, di girasoli, di azalee. Nausicaa nata di maggio è sempre sullo scoglio ultimo di lava antica. Si specchia nel sole, respira mare.
Ciro Adrian Ciavolino
ph Pasquale D’Orsi



Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 13 maggio 2015