Certi incontri d’intelletto possono avvenire per occasionali presenze, incidenze mentali, imprevedibili circostanze. E certe visioni, come al teatro, possono riportarti a storie della vita tua stessa. Fatalità. Il teatro è un rammentatore occulto, come un suggeritore dietro una quinta, dentro una buca. E il mio percorso, nella spartizione delle umane occasioni, fu deciso in un certo o proprio in questo modo, improntato alle coincidenze. Io sono un incrocio di rette e curve come certe barre di acciaio lucide, binari di un nodo ferroviario sui quali scivolano stridendo o cantando, o mandando faville ai fianchi, vagoni anche di terza classe, che fa. I binari che si incrociano come certi disegni di Hans Hartung sono affascinanti nella loro antinomìa dell’ordine e del disordine. Sono stato sempre sulla bilancia del sì e del no, quando sono coinvolto in un gioco o teoremi di ossìmori dove ogni cosa riesce a farsi speculare e contraria, come nelle camere degli specchi che almeno una volta abbiamo percorso anche in circhi di provincia. Ecco, il gioco verbale dell’ossìmoro. Con una mia amica si incominciò con tali antitesi che venivano da lontano. E certe visioni come al teatro sbattute in faccia, possono riportarci a storture-bellezze della nostra vita.
L’opera lirica è stata una costante della mia adolescenza quando miei giovani familiari, già adulti, andavano al nostro Teatro e portavano a casa un libretto striminzito di mediocre stampa, poche pagine con leggera copertina grigia o azzurrina, con il testo dell’opera. Con l’aiuto della radio, una di quelle monumentali a due ante nelle quali mi chiudevo per ascoltare di tutto, appena a dieci anni, sapevo intonare E lucean le stelle, oppure Un bel di vedremo anche se era per voce femminile. E più tardi, giovinotto, nella stanza con cucina e luggetella che affacciava sul giardino di Donna Sofia, al Vico del Pozzo numero quattro, confluivano amici votati all’arte, dove si cantava lirica o canzoni di voce, o mottetti. Uno di essi, voce di basso, sarebbe entrato nel coro del San Carlo. Imparavo ancora romanze e mi prendevano in giro cantandomi Vecchia zimarra dalla Boheme, per il mio cappotto non certo elegante né proprio nuovo. Qualcosa capivo se discutevano di sì naturale o do di petto o fa diesis. Io potevo solo canticchiare, spesso in falsetto, la mia voce era timidamente collocata tra le mie corde vocali. A quei concertini improvvisati, senza strumento alcuno, associo una canzone stupenda, e dolce, certamente una vicenda vissuta, Canzoni stonate, attribuita a Mogol ma che invece è di Aldo Donati, cantautore romano morto l’anno scorso: aveva sessantasei anni. La sua canzone fu il rilancio di Gianni Morandi. Poi l’ha ripresa Bocelli.
Canto solamente insieme a pochi amici
quando ci troviamo a casa e abbiam bevuto,
non pensare che ti abbiam dimenticata,
proprio ieri sera parlavamo di te.
Camminando verso casa mi sei tornata in mente,
l letto mi son girato e non ho detto niente,
e ho ripensato alla tua voce così fresca e strana
che dava al nostro gruppo qualcosa di più.
Enrico che suona, sua moglie fa il coro
Giovanni come sempre ascolta, stonato com’è…
Canzoni d’amore, che fanno ancora bene al cuore
.noi stanchi ma contenti
se chiudi gli occhi ci senti anche da lì…
L’altra domenica siamo andati al lago,
ho preso anche un luccio, grande, che sembrava un drago,
ritornando in treno abbiam cantato piano
quel pezzo americano che cantavi tu…
Canzoni stonate, parole sempre un po’ sbagliate,
ricordi quante serate passate così…
Canzoni d’amore, che fanno ancora bene al cuore,
diciamo quasi sempre, qualche volta no….
Al San Carlo si andava con l’autobus numero 155. Si entrava spesso facendo scivolare nella mano della maschera una moneta di carta. A volte il nostro amico corista ci faceva entrare da un ingresso laterale. Riuscivamo anche a sederci in sala, non posso dimenticare un plumbeo Faust di Gounod da una poltrona a ridosso della prima fila. Anche noi ritornavamo in treno, se riuscivamo, correndo a piedi verso Napoli Centrale per afferrare l’ultima corsa di notte possibile, l’accelerato delle undici e un quarto. Antica bellezza delle Ferrovie dello Stato.
Potrebbe anche interessarti:
In Campania c’è il comune più piccolo d’Italia e uno dei borghi più belli del Belpaese: scopri dove |
Novembre. Alla fine della recente serata, uscendo dal teatro, tra una selva di teste chine a guardare se stessi ritratti dalla malìa dei selfie, per mostrarsi su facebook e all’universo, io spiegavo alla mia amica musicista dettagli del finale, il significato dello spazio a regola geometrica spartito al centro, luminoso e tutto bianco tra due ali nere di misura multipla a “sezione aurea”. Il bianco era accecante come una catarsi o una espiazione. Si intravedevano negli spazi scuri persone intorno alla morente Violetta, che non spirerà col braccio in verticale fuori del letto. Un classico. Taluni registi ammiccavano talvolta, con questa posizione, alla famosa Morte di Marat nel bagno di Jacques-Louis David e perché no, alla Deposizione di Raffaello. Il regista la farà morire per terra orizzontale a noi, in contrapposizione ortogonale alla figura in verticale come ella era apparsa al proscenio, per il Preludio. Finezze. Avrei potuto tenere, su questo tema di spazi e di luce, anche una Lectio Magistralis, perdonate. Ma a chi parlare.
Tutti interessati a mostrare i selfie.
(3 – Continuerà, in qualche modo)
Ciro Adrian Ciavolino
ph Pasquale D’Orsi
Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 25 novembre 2015