Maestro,
leggo e rileggo il tuo ultimo scritto su Leopardi. La tua penna scivola ancora più leggera e veste di nostalgia le parole della memoria. Mi commuovo, lo sai. Sai che ho note di fragilità quando aleggiano i ricordi dell’infanzia. Leggo quindi, con occhi umidi, il racconto di te bambino e della colazione dalle parti di villa delle ginestre. Evochi il festoso ciarlare delle donne e il tuo vagare solitario tra prato e colonnato. E poi l’immagine di colonne danzanti in coppia con i pini, che disegnano gli intervalli regolari della tastiera di un
Giacomo Leopardi, è evidente, era già nel tuo destino di artista. Sono trascorse stagioni, ma gli echi di quell’incontro, custoditi nelle pieghe del tuo pensiero, si sono liberati attraverso le tue mani sapienti. Così sei andato incontro al giovane favoloso, affrescando di pietà e commozione il suo interrotto cammino di vita, quando levava la voce nel suo ultimo solitario canto.
Mezzocannone brulica di gente questa mattina. Perloppiù studenti a frotte che scherzano e ridono, avvolti in sciarpe variopinte, nel sole primaverile di Napoli. Svolto a sinistra per imboccare il vicolo appena sotto la chiesa di San Giovanni Maggiore e resto pochi istanti ferma a contemplare la maestà di quella scalinata di pietra. La memoria mi riporta alle faticose salite di Segesta e Taormina, quando d’estate mi inerpicavo sotto un sole cocente. Restavo sopraffatta dalla magnificenza di quello spettacolo…
Luoghi di culto laico,dove gli antichi celebravano con pietà dolente il dramma dell’uomo e del suo misterioso destino. Mi dico che questo proscenio napoletano intanto rassomiglia a quello di antica memoria greco-romana. L’abside paleocristiana sembra rivendicane la solennità e le opere hanno riempito lo spazio sacro con la stessa forza evocativa della tragedia antica. Mi sperdo lungo la navata, negli occhi le immagini del giovane poeta mi attraversano lente con intima commozione. Percepisco il suono greve del silenzio e tutta la sfinita solitudine di un uomo fragile e sgomento di fronte alla sua imminente morte. Negli occhi, i rossi i blu i rosa gli azzurri insinuano umori. Graffiando le tele, rimbalzano di continuo al mio centro. Nella scrittura di luce ho letto l’uomo e il fanciullo, le sue perse e tradite stagioni, la vita di fianco alla morte ed il rimpianto unito alla rassegnazione. Mai, tuttavia, la traccia di una colpa. L’artista è sempre innocente come quel bambino che giocava di immaginazione sotto il bianco colonnato della villa. Vago, vagheggio, entro ed esco dalle tele, mi consolo e infine ritrovo il significato di ogni cosa. La pittura ha invaso ogni spazio e mi ha colmata come un vaso di porcellana.
Grazie di cuore. Stamane il naufragare in un mare di colori è stato una sconvolgente e dolcissima emozione…
Anna Liverino
Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 27 maggio 2015