Una voce, al telefono. Hai visto la luna?
La domanda viene dalla periferia, a est di questa città, mi trovo nelle stanze che a quella direzione sono volte. Ma è al primo sorgere, a me è vietata da un palazzo che che mi porge una guancia scabra di blocchi di tufo che si sporgono da un intonaco grigio e che non fu mai dipinta. E’ un palazzo che si è sporto fino al confine consentito, hanno potuto aprire soltanto piccole finestre, in alto rispetto al vano delle stanze, come di regola. E di regola con grate.

Luna_PasqualeD_Orsi

Col trascorrere degli anni qualcuno d’abusiva sprone ha aperto uno spazio più ampio, una finestra regolare più giù di quelle quadre come lucernari consentiti, è civettuola, le grate s’intrecciano a losanga, bianche di smalto. Un ibrido quindi, su una superficie ruvida di tempo, di sole sfuggente e piogge. Qualcuno potrebbe dire: così com’è può essere anche un muro d’arte, tienilo per buono, e sul quale incidenze di tufo giallo e grigio di intonaco possono rammentare esperienze d’arte vera. Un Burri, per citare qualcuno.
Poi la luna si erge sul ciglio murale tagliato nel cielo, ed ecco la luce calda dell’astro cantato da tutti, musicisti o pescatori, nottambuli o poeti, canzonieri o vagabondi.
Per avventura d’arte sto componendo opere ispirate alla musica e c’è un notturno di Chopin all’astro dedicato, Op. 9 n2. Sulla tela è una luna macchiata e neanche intera, timidamente calante da foschie come pensieri vaghi sulla sua faccia. Altre lune sono comparse nel duemiladieci raccontando Leopardi venti volte sulle tele, per i suoi ultimi due Canti composti mentre era qui, nella nostra campagna, dove i medici lo menavano ospite della Villa delle ginestre e dove appunto le ultime due poesie compose, La ginestra o il fiore del deserto e Il tramonto della luna, come egli poteva vedere dalle terrazze della villa spegnersi nel mare.
La luna accompagna amore o il lupo mannaro, l’amante che sospira nelle ombre dei giardini o un ubriaco, accompagna una serenata o un viaggio di luce algida nelle notti di qualunque notte, cade su un molo o su un crinale del Vesuvio, su un treno che corre chissà dove, su una barca, ritenendola possibile complice di un amore sulla collina di Posillipo. Ed a quella luna sul mare, in dolce e spensierata giovinezza ci volgevamo facendo calcoli per le nostre pesche notturne sugli avamposti di lava frenata alla marina. Li ci siamo portati a gruppi per pescare mormore o saraghi, avemmo notti fortunate e panaro ricco.
E’ storia piccola di piccolo paese.
Era così il nostro, un piccolo paese con le sue ferite di guerra ancora aperte, e cominciavano ad affiorare sugli schermi dei cinema freschi film americani, con l’avvolgente musica di Moonlight Serenade, o Blue Moon. Avremmo poi risposto, anni dopo, con Luna Caprese e poi Luna rossa e vedemmo la luna rossa spuntare ai Camaldoli come quella dell’altra sera annunciata al telefono.
Ma è storia universale se una spettrale luce lunare illumina le macerie di una Napoli del dopoguerra illustrata da Roberto Rossellini con il film Paisa’, un bianco e nero di struggente misura artistica e miseria sociale. Chi di noi vive di bellezza diventa come il soldato Joe di Paisa’, ubriaco di vittoria, e che esorcizza la guerra vagando e barcollando sulle macerie di una città distrutta. L’uomo di libertà entrerà nella casa di uno scugnizzo che gli aveva rubato le scarpe. E per questo piangerà Joe, soldato di colore deufradato degli scarponi che simboleggiavano la sua sicurezza di soldato vittorioso. Il fanciullo gli racconta con poche parole della perdita di tutta la famiglia per un bombardamento, Bum bum, ‘e bombe, ‘e bombe, bum bum, una scena lapidaria del cinema neorealista. Uno dei cento film da salvare.
Joe vittorioso si sentirà perdente. Come può avvenire a un creatore di bellezza se avverte aria di cattiverie intorno: su questo il fragile Leopardi meditava, a Napoli, ospite non amato. Ognuno di noi può essere ospite, allora, col rischio di essere strumento di apparenza davanti a un muro dietro il quale si nascondono ombre. Ognuno di noi custodisce in petto un tabernacolo laico per difendere l’anima.
Scrivo poesie, ogni tanto, evito sentimentalismi, sono poesie di ambienti, di immagini, figure, in spazi delimitati quasi come in cornice. Qualche piccola storia lieve, attenta ai ritmi, alla musicalità del suono alla lettura. Per il passato anche poesie cronaca, paesaggi, strade, poesia urbana. Parecchi, davvero parecchi anni fa, ero per motivi d’arte mia in costiera sorrentina, incappai in un concorso di poesia della Editrice Isola d’Oro. Si partecipava, se la memoria non m’inganna, con tre pezzi. Ci provai, per stare insieme in qualche luogo anche per avventura letteraria. Ebbene, figurai come terzo classificato e dopo il classico diploma e medaglia che non so dove stanno, entrai col numero tredici in una piccola collana di poeti, taluni già noti, libretti gentili e tascabili. La mia silloge aveva per titolo Le tue dita di luna.
Ho evitato altre tentazioni. Da allora in poi non ho mai più partecipato a concorsi di poesia.

Ciro Adrian Ciavolino
ph Pasquale D’Orsi



Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 1 giugno 2016