Per questo racconto per immagini e canti e danze era necessaria una voce narrante, come ex libris, una narratrice come certi cantastorie di paese davanti a un teatrino di piazza, dove è stato bandito qualsiasi tentativo di scenario affidando l’ambiente alla bellezza di un vicolo napoletano che si può intuire anche se non dipinto, non allestito, si lascia all’immagine che lo spettatore costruisce da sé, per identificare se stesso ed entrare nei tempi e nei luoghi della storia, delle rivoluzioni, o degli incantamenti quasi mistici sottolineati dai quattro musici fuori del palcoscenico, antichi menestrelli o ultima posteggia, non importa. Fuori e non fuori, la voce narrante di Silvia D’Istria con in mano una ideale bacchetta magica per far comparire i quadri che affiorano dagli stacchi bui come tableaux vivants, com’era d’uso nelle Corti di Re e Vicerè che qui albergavano e regnavano su un popolo sempre teso al vivere o sopravvivere, sotto la pelle di Napoli come una Madonna delle sette piaghe, mai sanate e dolorosamente cantate. E scene edulcorate da presenze magiche, come venditori, ruffiane, amanti o pazzarielli, figure anche oleografiche se volete, ma pur sempre fatte della carne viva di questa terra di conquiste e di rinascite. E c’è un andare e venire di processioni profane e laiche insieme, la nostra storia ha nelle vene un laicismo sacro e una sacralità laica, se posso dire con virtuosi ossimori.
Silvia regina venuta dalla Spagna o da un teatro elisabettiano, non vien detto, con paludamenti austeri come uscita da una pinacoteca, sfoglia le sue vestimenta come un libro dal quale si strappano pagine di rabbia storica scritta col sangue dei martiri, una Napoli dal nero delle catacombe fino ai ricoveri dell’ultima guerra. Silvia Regina si libera dagli orpelli che distinguono magnanimi lombi divenendo infine una vajassa, una napoletana dolente: ella è fuori la porta di un basso coperto da un pudico telo su un vicolo qualsiasi dei quartieri, una di quelle porte sempre aperte, di generosa umanità e accoglienza, davanti alla quale puoi fermarti a parlare, per ascoltare la melodia della nostra parlata, la musica della nostra lingua.
Silvia regina getta via al tempo i suoi decori senza divenire indecorosa, si spoglia della regalità rimanendo regina di ogni tempo, cortese e no: nonostante il linguaggio ormai da popolana conserva la sua dignità per rappresentare quella di un popolo. E’ la lingua madre fatta di dolore, ma c’è speranza anche se ‘o lupo se mangia a pecurella. S’accorda il tutto con le canzoni sussurrate come preghiere in una chiesa, per bocca di due donne che raccontano le nostre storie per rimuovere, esorcizzare una guerra dolorosa, com’è dolorosa una Tammurriata Nera, con l’immagine fuori dell’uscio che può ricordare Manzoni “ Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa, e vi traspariva una bellezza molle a un tempo e maestosa…” . E può ricordare la donna che allatta il vecchio nelle Sette Opere della Misericordia, questa Silvia napoletana regina e popolana. E ancor più quando nelle braccia culla un bambino può toccare il cuore un sublime Salvatore Di Giacomo come nel finale di Lassammo fa’ a Dio:
Nanninella ‘a pezzente
ll’arravugliaie dint’a nu sciallo viecchio,
s’’o pigliaie mbraccia – s’’o strignette mpietto,
e dint’ ‘o charo ‘e luna,
e asciuttannose ll’uocchie a ‘o mantesino,
lle dette latte – e s’ ‘addurmette nzino…
Ciro Adrian Ciavolino
Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 20 aprile 2016