Stabat Mater doloròsa                La Madre addolorata stava
iuxta crucem lacrimòsa              in lacrime presso la Croce
dum pendébat Filius.                  su cui pendeva il Figlio.
Cuius ànimam geméntem           E il suo animo gemente
contristàtam et doléntem            contristato e dolente
pertransivit glàdius.                    una spada trafiggeva.

Ecco della Pasqua un alto momento di cultura sacra, Pergolesi nella Basilica di S. Croce. Venerdì Santo. Molti altri musicisti eccellenti, Scarlatti, Vivaldi, Rossini, Liszt, tra i più noti ma son decine quelli che si sono dedicati a questo tema. Tra questi c’è anche un nome che, pronunciato, dovrebbe ricordare u n grande maestro, Nicolò Zingarelli. Questa presenza è nota a buoni cultori di storia nostra, a persone attente alle lapidi civil i: Zingarelli morì, osservando la napoleonica data del cinque maggio, nel 1837 a Torre del Greco dove abitava, in via Roma n umero quattro. Nome a me familiare, per epidermica attenzione alle lapidi. Ma soprattutto perché, ragazzo appena, conobbi colei che sarebbe divenuta mia moglie: la ragazzina Pupetta abitava nel palazzo dove viveva il grande musicista, e forse nelle stesse stanze. Parecchi anni dopo, in quel palazzo tornai per tenervi studio e successivamente anche casa: vi ho albergato per una trentina d’anni. Sulla strada vi è una lapide, posta dal Comune nostro, sempre un po’ distratto, quarantasei anni dopo, nel 1883:

IN QUESTA CASA / IL 5 MAGGIO 1837 / DI ANNI 85 E GIORNI TRENTA / MORI’ / NICOLO’ ZINGARELLI / PRINCIPE DELLA MUSICA / SACRA E PROFANA / IL MUNICIPIO / A RICORDO / 5 MAGGIO 1883



Stabat un popolo sulle tredici scale di Santa Croce, musicanti per amor di suoni con voci roche di passione sul sagrato a notte del Venerdì Santo intonavano “Ai tuoi piedi o bella madre”, un canto senza pretese ma che ti stringe il cuore a sentirlo, a cantarlo. Cantori-suonatori Francesco Sangiovanni voce, Antonio Guarracino corallaro con chitarra e voce grave, e C iro Maione, più noto come Giro ‘a Trammèra, con violino e voce stentata per assidue mani in acqua, aveva un tornio per c ammei. Vi stavano lì a notte amanti di canti al Cielo, nostra fede in una città silente, le voci si affollavano e poi planavano in una piazza che era ancora un paese con piazza, coi suoi quattro verdi chioschi esagonali d’angolo come sentinelle, mentre l’ultimo tram rallentava la sua corsa per non stridere sul già incerto violino e la dolente chitarra. Si rincasava stanchi ma contenti della sommessa funzione di chiesa e con passo pensoso sotto le fioche lampade della strada, ripetendo nella mente o con un filo di voce:

Ai tuoi piedi o bella Madre, verso pianto di dolore, per me prega il Divin Padre, in Te sola ha speme il cor…

Le porte delle case non erano chiuse, fermate con la spalliera di una sedia che sapevamo lì, e si scostava piano, sollevandola, per non far rumore.

Stabat un compagno di studi, Antonio Bigliardo, spesso Stabat Mater chino per terra nelle chiese: era uno Stabat-Mater-phdOrsi-2014

dei tappetisti della Festa dei Quattro Altari, anni ’50, ’60, Festa che si rimpiange sì e no. Bigliardo non era dei migliori, lo dico con grazia, gli volevo bene, m’insegnava la prospettiva. Il lavoro di figura gli era d’affanno: ha più volte ripetuto, per suo riparo, un soggetto di Domenico Morelli, Le Marie al Calvario, un gruppo di donne paludate alla maniera sacra, panni scuri di mestizia, con pochi connotati anatomici, lavoro comodo per lui, sì e no si vedeva spuntare un profilo e un po’ di mani in preghiera, Era un bravo professore di Disegno ed anche, o soprattutto, un bravo attore. Spesso citavamo, e sorridendo, trovandola troppo caricata, una sua famosa battuta dal dramma La Nemica, di Dario Niccodemi: “Mamma, perché non mi vuoi più bene”, con un rinforzo trionfale di pianto e singulti sul perché. E’ stato anche un formidabile Sarchiapone con Peppe D’Istria, Razzullo nella Cantata dei Pastori. Stabat mia madre con le compagne in tempo di guerra ai piedi della Madonna Liberatrice dai Flagelli, raggiunta a piedi a Boscoreale, dove l’immagine sacra si arricchiva di fotografie di soldati e marinai appuntate intorno come ghirlande: mio fratello Francesco era sulla corazzata Cavour. Stabat mia madre, tanti anni dopo, già anziana, fuori Vico del Pozzo, un giorno sostandovi, quando un giornalista de Il Mattino a sua insaputa la ritrasse pubblicando la fotografia non so per quale servizio su quei luoghi trascurati, luoghi di tutti e di nessuno. Qualcuno portò il giornale a casa. Forse era piaciut a al fotografo quella figura minuta sotto l’arco scorticato dal tempo segnato però da un presuntuoso e inutile leone rampante nella chiave di volta. Nannina ‘a cazettara era sempre vestita di nero, e andava prosciugandosi, negli anni, sino all’addio come per dormire, nei suoi novantacinque anni.

Stabat mia madre accanto a Francesco mio fratello morto, dolendosi lei vecchia di perdere un figlio non vecchio. Vado spesso al cimitero, per compagnia ai miei cari e, come scriveva Marotta per sua madre, che aveva portato a Milano nel Cimiter o di Musocco, per prendere dimestichezza con la morte.

Stabat una come mille madri nella storia di Portosalvo. Lì ferme figure nere all’alba o nella notte sulla roccia lavica, la b rezza marina scioglieva i tuppi di trecce, mandava i capelli a disegnare tra le stelle di ottobre storie di eterne attese di navig anti, di coralline che, avvicinandosi, si annunciavano con gonfi suoni di tofe, mentre le vele cominciavano a ripiegarsi, d opo mesi di fatica e di vento, nel piccolo porto. Stabat la madre di Salvatore Quasimodo,” Lettera alla madre”:

……..Ah gentile morte,
non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro,
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti.
Non toccare le mani, il cuore dei vecchi
……………………..
Stabat la madre accanto al figlioletto morto. Pascoli, “L’aquilone”:
…………………………………….
ti pettinò co’ bei capelli a onda
tua madre…adagio, per non farti male.
…………………………………….

Stabat la madre di Pasolini in una tomba a terra, dietro il muro di cinta appena all’ingresso, nel cimitero di Casarsa della Delizia, accanto a quella del figlio. Soltanto due nomi senza orpelli. V’è un gelsomino al muro, e un albero d’alloro ricresce, nonostante lo recidano, tra due lastre quadre uguali e nude. Sempre ci vado trovandomi al nord e acconcio ai bordi una pietra, o un fiore, come d’usanza fanno amanti del grande poeta. Ho raccolto talvolta un fiore selvatico di iris in una forra all’ingresso del cimitero. Pasolini, “Una luce”:
……….
Saremo insieme
presto, in quel povero prato gremito
di pietre grige, dove fresco il seme…
…………….
Vi tornerò, a giorni. E cercherò l’iris. Dovrebbe essere fiorito, ora ch’è maggio.
Ciro Adrian Ciavolino

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 7 maggio 2014