Ogni anno, di questi tempi, il piccolo scrittore del giornale locale che ospita la sua penna si avvolge in un inventario intimo, ripercorre le pagine occupate, nell’angolo a lui acconciato come un confessionale chiuso
Usciti, fermi ancora al compendio delle nostre confessioni o delle omissioni, più le seconde che le prime, e visto che il tram non passa più, ora prendiamo d’assalto una ideale diligenza che ci dovrebbe condurre in qualche purificante paesaggio per procurarci ammenda, e che non sia deserto. Ci guardiamo intorno per individuare qualcuno che come noi stia cercando una polla d’acqua, semmai lustrale. E’ questo il deserto, quello delle anime e del senso della civitas, la cui carne sembra truccata, di cartapesta, senza pulsioni. Un deserto di terra incolta, calpestata dall’ignominia. A questo punto devo giustificare il titolo di questo scritto copiato e incollato da una vecchia canzone, quando si cantava con la voce e con attenzione alla musica come al modo di presentarsi. La stessa spiaggia è quella che il mio conterraneo erudito chiamerebbe il Re nudo. E’ sabbia la civitas sfuggita dalle mani senza difesa alcuna, è rena, seppure medicamentosa come la nostra così scura di vesuviano parto. La pelle della città è sfarinata o malamente infarinata. Trovandomi in Sicilia, una manciata di anni addietro, più o meno a ridosso dell’Etna, accompagnatori generosi, entusiasti e di buona volontà, ci portarono a vedere la sabbia nera, oh la sabbia nera, proprio a noi che in quella siamo nati correndo lungo la spiaggia della Scala o quella del Cavaliere a ridosso di Villa Sora. Non ci rimase che calarci in certe grandi vasche piene di terra bianca, pomice di etnea origine, ci imbiancammo andando poi ad altra lustrale acqua, quella di un mare dell’ultime sponde affacciate sul mitico Mare Nostrum che di nostro nulla ha più.
Non volendo, come spesso ci accade, apparire e come fatalmente succede, tipici Laudatores Temporis Acti, (in corsivo e maiuscola a inizio di parola, come lapidaria insegna) faremmo la fine di una vetrina ammantata spesso di pervicace supponenza del “Come eravamo”. Ne hanno ben donde, diciamolo per nostra intima Pietas. Ma a queste memorie malinconiche manca sempre una denuncia che gli stessi proponenti di tali vetrine omettono anche davanti al confessionale di cui sopra. Omettono perchè “azzuppano”. Contenti di un foraggio consolatorio e appagante. Nessuna idea e se ne affiorano sono talmente illusorie e metafisiche da apparire ridicole. Qualcuna o più d’una di queste figure vaganti e senza mestiere cosa hanno fatto di impegno pratico per salvare il salvabile, per il bello visibile, e oltraggiandolo invece con una insipienza indicibile: la disattenzione. Guardando senza vedere. Chi ha ideato, accompagnato la ristrutturazione a Via Roma di un palazzo, facendo sporgere balconate a zig zag in un contesto urbano dignitoso e nobilmente espresso dai nostri avi dopo l’eruzione del 1794, era un architetto. Una indegna struttura da abbattere. Ora parlano di restyling. Suggerirei: grattate quell’obbrobrio.
Gli antichi costruttori al basamento dei palazzi lasciavano a bella posta sporgenze di roccia lavica a futura memoria, volendo ricordare ai posteri il loro rispetto per la nostra natura vesuviana. Ce ne sono alcune (guardare alla sommità di Via Diego Colamarino) gonfie di detriti, calcinacci ed altra immondizia che andrebbero pulite e preservate per sempre. Altre sono state scalpellate. Altre coperte da masselli come fanno per le mura dell’autostrada: vedere scale di via Cappuccini. Vergogna, quanta vergogna. Quelli che si crogiolano al sole della nostalgia, se stanno ancora aspettando il tram, e se veramente passa, suggeriamo di farci un pensierino. Le nostre parole: so che rimarranno sulla spiaggia, sempre la stessa. E nello stesso mare.
Ciro Adrian Ciavolino
Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 08 luglio 2015