Come se volesse giustificare la fame di un pubblico che ha bisogno di un re da seguire, oppure come unica via di uscita all’arrivo dell’irrevocabile tempo di scadenza.
Perché proprio Luigi “Gigione” Ciaravola? Cosa rende lui, oppure la sua storia, così “incredibile”? Più che fatti straordinari o imprese epiche, forse si tratta della consapevolezza dello stesso artista, la profonda convinzione di essere qualcosa di speciale, quella che Valerio Vestoso sottolinea in ogni inquadratura della sua epopea. Sin dall’inizio, dopo aver citato Platone, ci troviamo con un primo piano del venerato Gigione, che ai suoi 64 anni, con una panzaincipiente e la calvizie nascosta sotto un cappellino, guarda in macchina e afferma con l’aria del profeta: “la mia musica è per tutti”. Da lì, incomincia la magia – oppure il trucco – del montaggio, quello che può rendere “incredibile” ogni pezzo di storia, ogni sguardo, ogni persona comune o straordinaria. La costruzione di un discorso che cerca di fare del passato e del presente una linea indissolubile e continua, dove non c’è posto per fallimenti, poltrone vuote, dimenticanze né oblio. Alla fine, tutto dipende da quando si accende e quando si spegne la luce, dove si mette il focus e cosa vogliamo tenere al buio. E nel vangelo di Gigione secondo Vestoso, ci può stare lo spazio per i flash e per il buio, per gli applausi e il silenzio, ma lo spettacolo non è mai finito.
Ormai la figura di Gigione, il “re della sagra”, sembra non avere tempo. Raccontando se stesso, Luigi Ciaravola rivela l’inizio della profezia da un luogo alieno, come se si trattasse di un altro, oppure uno dei fan: “Gigione nasce a 8 anni…” Primo di una serie di paradossi che lo definiscono come figura pubblica e privata. Su di lui convergono l’immaginario di festa di provincia con il successo altrove (dice la leggenda che è in Svizzera e Germania il luogo dove lui trova la sua vera fama); le hit trash canore con le melodie di amore eterno che fanno piangere la folla; la cultura pop e il pagano con una volontà religiosa, dove “‘a campagnola a modo mio” – in un loop infinito, quasi insopportabile – convive con le canzoni dedicate a Papa Francesco e a San Gennaro, opere che secondo uno degli intervistati – un inquietante prete auto-nominatosi suo number one fan – rendono Gigione “quasi un santo”. Mentre tutti questi livelli s’incontrano, provando a trovare una certa concordanza ritmica ed estetica, Gigione resta sempre un po’ perplesso, alieno, guardando come la vita va avanti e gli altri continuino a urlare il suo nome.
Come se fossimo dei fans in attesa che incominci il concerto, la visione di Essere Gigione diventa una costante attesa, la promessa di qualcosa che sta per accadere, del momento in cui la successione d’immagini d’archivio, canzoni, applausi e primi piani dell’artista nel backstage raggiunga finalmente un qualcosa di “incredibile”. Ma anche se ci sono degli attimi dove sembra che l’istante-chiave possa arrivare – come gli incontri con i fans a cui lui ha “cambiato la vita” eppure il rapporto con i figli Jo Donatello e Manayt, i successori dell’imperio Ciaravola – poi si perdono nella marea di pezzi d’archivio, nella ripetizione delle stesse melodie, nell’andare avanti e indietro cercando la conferma di un passato di gloria, senza chiedersi cosa stia capitando adesso, e veramente, dentro la testa del personaggio in questione.
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“È come vedere un quadro di Picasso, so che è arte ma a me non piace. Invece, se guardo un paesaggio in campagna, al naturale, per me quello è bello, è anche arte. La stessa cosa mi capita con la musica di Gigione“. In due righe, e in un momento di assoluta lucidità, le parole di uno dei membri del Gruppo Fan Orte riescono a definire lo spirito che si percepisce dietro al racconto audiovisivo di Luigi Ciaravola, sia qualcosa di consapevole oppure un atto incosciente. E forse è questo l’atteggiamento giusto, anche per guardare l’incredibile storia di Gigione.
Regia: Valerio Vestoso
Origine: Italia, 2017
Distribuzione: Capetown Film
Durata: 71′