Nei miei viaggi di penna le storie di paese vanno a passo leggero. Così che per andare a trovare amici miei dalle parti di Santa Teresa, come diciamo appena si lascia Palazzo Vallelonga, scelgo il tragitto a piedi, com’era d’uso fare passeggiando nei silenzi della nostra gioventù. Si può rivedere la facciata elegante di qualche palazzo, una preziosa decorazione, scorgere un giardino superstite. E nel giardino chiedo di sederci Salvatore-Flavio-Raiola-2014-phD_Orsi

per conversare invece che in casa, l’aria è ancora dolce in questo generoso ottobre. Sono ospite di Salvatore Flavio Raiola, compagno nell’avventura magica nell’arte della pittura. Argomento famiglia s ua, ne discorriamo, tra un’ortensia che sta lasciando la sua stagione e un palmizio d antica data che ci riporta a c erte nostre pretese coloniali all’inizio del secolo passato. E da quei tempi comincia il racconto di torresi proprio torresi.
Giuseppe Raiola era il nonno di Salvatore, apriva tabaccheria su via Cappuccini, quella strada che tiene come immagine, sacra sì e no, il Vesuvio come capoletto, a guardare da giù. Nelle tabaccherie, in quegli anni, c’era sul banco di marmo una fiammella che veniva dal becco di una lampada ad acetilene, incoraggiava i fumatori ad accendere il sigaro toscano, dopo averlo un po’ smozzicato. L’uomo aveva sposato una siciliana, Carmela De Marco, passione per il canto, era un zoppicante contralto. Di questi non abbiamo precise storie. Si usava, per perpetuare memoria di sé, dare lo stesso nome ai figli. Giuseppe fu quindi un figlio, secondogenito, 1887.Dai Monopoli di Stato per Rivendita di Sali e Tabacchi a una Ricevitoria del Lotto il passo è breve, così che il giovane Giuseppe diverrà gestore, diverrà ‘u postiere ‘i ‘ncoppauardia, non trascurando mai la giovanile passione per poesie e canzoni.

Il fascino di un postiere che scrive numeri in forme particolari intingendo la penna in un calamaio di inchiostro nero, il taglio secco dei biglietti dalle matrici, la consegna di fogli interi a tre quattro piegature, il suono come di celeste strumento di quella carta ministeriale, il battere di timbri: ecco, era una chiesa laica, dove speranzosi giocatori, quasi sempre persone anziane e per lo più femmine, andavano in settimanale processione. Chi poco poteva s’ i ucava nu vigliettiello. Preghiere numerate, suggerite da sogni o banali accadimenti. Il postiere spesso doveva realizzare in aritmetica sogni e altre storie, era un confessore laico, un interprete, di fronte ad astruse domande i numeri all’occasione se l’inventava. C’era anche chi veniva ritenuto messaggero di buoni numeri, ammiezassangaitano, sulle belle scale di Traversa Teatro. fortunatamente ripide da non poterle aprire alle automobili, com’è stato per altre, crudelmente grattate: lì viveva Tatonno ‘u pastore, faceva ingenui pastori di terracotta e dava anche numeri al lotto, la gente ci credeva.
Giuseppe Raiola viaggerà nella sua poetica vita come Don Peppino Raiola e infine con una firma enigmatica, Raimir, per le sue poesie-canzoni. Giovane nemmeno trentenne,1913, portò al maestro Di Capua (‘O sole mio, Torna maggio, Io te vurrìa vasà’) una poesia, Scuòrdatenne, bene accetta dal grande musicista napoletano: ne nacque una canzone. Giovane di bello aspetto, elegante nel vestire, sorridente sempre coi suoi baffetti alla Adolphe Menjou, fatalmente piaceva alle donne, un tombeur de femmes.
Nel 1922 scrisse una canzone per le ammiratrici:
Vuje che vulite ‘a me:
Tienemente, tienemente,
vi’ che guaio c’aggia passato,
ne’, pe’ fforza ‘o nnammurato
cu sti ffemmene aggia fa’…

Raimir s’accompagnava a pochi amici. Incontrava l’amato Tagliaferri, il pittore Salvatore D’Amato, lo scultore Antonio Mennella, lo storico Raffaele Raimondo, Antonino Di Lecce divulgatore di musica nostrana. Bella gente, aspettiamo ancora targhe stradali coi loro nomi. Nel 1933 Raimir conobbe il suo trionfo e il nostro orgoglio, è sua una canzone bellissima che accompagnava un Carro di Piedigrotta. I nostri artisti erano imbattibili, dopo cinque anni di Primo Premio, il comitato napoletano fu costretto a chiedere ai torresi di partecipare fuori concorso. La canzone ‘E ccuralline ci emoziona sempre sentendone il canto.



Quanno torna sta curallina
saje che festa fa Matalena…

I nonni materni di Salvatore avevano una botteguccia a ccanto alla Chiesa dell’Assunta, Via dei Comizi, il nonno era un solachianiello, parola bellissima, antica. La moglie Carmela veniva chiamata Miliella e li ospitava una sorella nubile, Nanninella. Vendeva cose diverse, comete, ed a nche ghiaccio. A quella bottega correvamo sudati tornando dalle scogliere abbasciammare, d’estate. La strada era u n lenzuolo di sole davanti a un fondale alto e azzurro. Alla Festa dei Quattro Altari nella chiesa di S. Maria di Costantinopoli ci si poteva incantare per il magistero di Salvatore D’Amato che, con i suoi fratelli, ci donava splendidi tappeti di fiori (ma si usava, si sa, segatura colorata, i fiori soltanto contorno). Proprio ammirando quell’arte Salvatore Flavio Raiola fu catturato alla pittura.
Liceo Artistico e Accademia di Belle Arti lo videro tra i migliori allievi. Era d’estate quando conobbe Lina, una bellezza straordinaria, se ne innamorò, lei si innamorò del giovane artista dai bellissimi occhi azzurri. Si sposarono subito, dopo incontri al mare, Bagno Risorgimento, La Scala. Noi eravamo gente a strisce su quelle impalcature di legno con tettoie di traversine messe in diagonale, e distaccate quel tanto che col battere del sole ci ridisegnavano come zebre. I fratelli Aurilia, titolari del lido e di una segheria nei paraggi che diabolicamente strillava al taglio dei tronchi, si intestardivano aggiungendo altri strilli dii affannose canzoni da dischi a settantotto giri, ormai esausti. Ma questo è il tempo di ritratti di famiglia. Un volo veloce su una storia raccontata da un artista che meriterebbe uno spazio personale e del quale più autorevoli penne hanno scritto.
S’avrà tempo per tornare nel suo giardino dove si legge la sagoma di profilo della Chiesa dei Carmelitani Scalzi che evapora nel fumo di stoppie bruciate, sul far della sera.
Ciro Adrian Ciavolino
(ph Pasquale D’Orsi)

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 22 ottobre 2014